Passo dopo passo sul Cammino di Santiago
Da Terradillos de los Templarios a El Burgo Ranero
28 maggio 2018
Tappa 18 – Km. 30
Alcuni biscotti e una banana è quel che mangio stamattina prima di mettermi in cammino.
Nei giorni passati di banane ne ho mangiate spesso ma adesso, puntando alla guarigione anche tramite la reintegrazione dei sali minerali, cercherò di farne un consumo sistematico; com’è noto si tratta di un frutto ad alto contenuto di potassio, minerale fondamentale per la contrazione muscolare.
Alle 6:30 mi metto in cammino insieme ai soliti amici, ma presto li perdo di vista e rimango da solo, dato che il mio passo è più lento rispetto al loro.
Le mie condizioni fisiche sembrano migliorate ma, pensando a come si è evoluta la situazione nel corso delle passate giornate, non mi illudo che il problema sia risolto.
La tappa di oggi è di trenta chilometri, quindi abbastanza lunga, e si svolgerà tutta in piano: il dislivello del territorio che attraverserò è praticamente nullo.
Siamo a un’altitudine di quasi novecento metri sul livello del mare e il paesaggio è sempre lo stesso, uguale a quello dei giorni passati.
La buona notizia è che questa volta, lungo tutto il tragitto, s’incontreranno parecchi centri abitati con distanze relativamente brevi tra l’uno e l’altro.
Ulteriore fatto degno di nota è il meteo: la temperatura è fresca e il cielo è coperto da nubi che fanno presagire la pioggia; quindi, anche oggi, le “mesetas” saranno indulgenti, risparmiandoci il caldo insopportabile.
Dopo poco meno di un’ora dalla partenza, sono a Moratinos.
Come tanti altri pellegrini, mi fermo anch’io nel primo bar che incontro in paese e faccio una vera colazione con un involtino al cioccolato e una spremuta d’arancia.
Moratinos è abitato da meno di ottanta persone e, come tante altre piccole località toccate dalla via jacobea, vive grazie ai pellegrini che lo attraversano.
Da qualche anno, nel piccolo paese è stato inaugurato l’Albergue hospital San Bruno, realizzato ristrutturando una tipica casa della Castiglia, con ampio giardino e patio. L’ostello è privato ed è gestito da italiani facenti parte dell’Associazione bresciana Amici del Cammino di Santiago.
Prima di riprendere a camminare, indosso il poncho e le ghette perché com’era prevedibile incomincia a piovere.
Mi avvio lungo la calle Real e mentre la percorro vedo esternamente la iglesia de Santo Tomás, chiesetta in mattoni del XVI secolo, piccola com’è piccolo il paese.
Una freccia gialla di legno, posta all’uscita di Moratinos, oltre a indicare la direzione da seguire, riporta che mancano 376 chilometri a Santiago de Compostela. Facendo il solito rapido calcolo ne deduco che fin qui ho percorso più di quattrocento chilometri.
Questa volta la pioggia non insiste per molto tempo e smette presto di cadere, anche se il cielo rimane carico di nuvole pesanti.
Mentre avanzo, davanti a me si ripropone lo stesso paesaggio che mi lascio dietro e la sensazione è quella di restare sempre nello stesso punto, visto che l’immagine dell’ambiente circostante rimane invariata.
Intorno alle nove transito da San Nicolás del Real Camino, un altro paese minuscolo, senza persone in giro: l’ultimo della provincia di Palencia.
Anche qui il piccolo centro è caratterizzato da una chiesa in mattoni, intitolata al patrono san Nicola di Bari.
Accanto alla chiesa c’è l’Albergueria Laganares, un piccolo ostello con appena venti posti letto.
Passandovi davanti non si vede anima viva; eppure la struttura è aperta e all’esterno ci sono diversi tavolini e sedie che danno al posto un’immagine accogliente e familiare.
Non mi fermo perché non ne ho la necessità e perché ho ancora molto da camminare, prima di giungere alla conclusione di questa tappa.
Oltrepassato il paese, il sentiero sterrato continua parallelo all’autovia Camino de Santiago.
– Si, c’è anche un’autostrada con il nome dell’antica via che porta alla città dov’è sepolto l’Apostolo Giacomo. –
– Visto che auspicavo una variazione del paesaggio, eccomi accontentato! –
Sicuramente sarebbe stata meglio la monotonia del sentiero in mezzo ai campi anziché camminare a fianco dell’autostrada, con i Tir che sfrecciano a pochi metri da chi va a piedi.
Sono circa le nove e venti mentre supero il confine che segna l’inizio della provincia di León.
Dopo aver camminato per un’altra mezz’ora, finalmente, una deviazione permette di allontanarmi dall’autostrada.
Attraversato un piccolo ponte in pietra, sopra il río Valderaduey, giungo alla ermita de la Virgen del Puente, eremo del XIII secolo che nel passato è stato anche un ospedale per pellegrini e lebbrosi.
Incontro qui tre facce conosciute, sono Tunner di Seattle, Eduardo di Città del Messico e Soobin di Seul: praticamente un piccolissimo concentrato di mondo, dove non esistono barriere, muri, confini e discriminazioni razziali. Solo la spontaneità e la freschezza di tre giovani che partendo da tre angoli diversi del pianeta, senza mettersi d’accordo e senza stabilire alcun appuntamento, si sono trovati sul Cammino e, spontaneamente, stanno condividendo questa specialissima esperienza di vita.
Mi piace ricordarli in questo momento di pausa e li immortalo fotografandoli in tutta la loro spontaneità.
Pochi metri più avanti il sentiero passa in mezzo a due statue poste frontalmente tra loro; una è dell’imperatore Alfonso VI e l’altra dell’abate Bernardo de Seridad: la loro posizione segna il centro geografico del Cammino francese.
Questo è quindi il punto mediano dell’intero percorso tra Roncisvalle, in Navarra, e Santiago de Compostela, in Galizia.
Il pensiero di essere arrivato fin qui, un po’ m’inorgoglisce, per il traguardo raggiunto, e un po’ mi mette ansia, considerando che ho ancora da camminare per altrettanti chilometri. Se poi conto anche le tre tappe che dopo Santiago de Compostela portano a Finisterre, allora ai chilometri che mi rimangono da percorrere ne devo aggiungere un altro centinaio.
Inoltre, pensando ai problemi fisici che mi affliggono in questi giorni, mi preoccupa la possibilità di non poter arrivare fino al termine del Cammino.
Dopo aver proceduto per altri due chilometri, sono circa le dieci e mezza mentre arrivo a Sahagún.
Questa volta si tratta di una cittadina di circa tremila abitanti che nel tardo Medioevo ha rappresentato un importante borgo.
Ci sono diverse cose da vedere e quindi non mi limito solo ad attraversarne il centro, voglio dare almeno un’occhiata ai principali monumenti della cittadina.
Per prima vedo la plaza de Toros, inaugurata all’inizio del Novecento, e dopo passo davanti alla iglesia de la Trinidad che, attualmente, ha le funzioni di ufficio del turismo, auditorium e ostello. Quest’ultimo, denominato Albergue per peregrinos Cluny, è in grado di offrire alloggio a circa sessanta persone.
Sempre in zona do uno sguardo alla iglesia de San Juan de Sahagún, realizzata in stile neoclassico.
Oltre all’interesse storico e artistico per la cittadina, metto in conto anche la ricerca di una farmacia.
Acquisto delle compresse di magnesio e potassio, sperando che contribuiscano a farmi guarire dai dolori alle gambe.
Proseguendo verso il centro, mi reco alla iglesia de San Lorenzo e alla iglesia de San Tirso.
Le due chiese di epoca medievale, non vicinissime tra loro, presentano le stesse caratteristiche architettoniche, romanico-moresche, e sono costruite in mattoni.
Esternamente sono molto simili e sembrano quasi gemelle, in particolare le magnifiche torri campanarie a pianta quadrata, suddivise in quattro piani, ne accomunano le immagini.
Di fronte alla chiesa di san Tirso c’è la torre del Reloj: oggi è rimasta solamente una torre ma originariamente ce n’erano due uguali; la gemella è stata distrutta nell’Ottocento da un incendio.
Le due torri si collocavano su ciascun lato dell’ingresso del monasterio real de San Benito, un importante comunità di benedettini durante il Medioevo. Nel corso dei secoli, guerre, terremoti e una serie di incendi hanno distrutto quasi totalmente la rilevante costruzione religiosa; attualmente ne rimangono soltanto tre parti: la cappella di san Mancio, la torre del Reloj e l’arco di san Benito. Quest’ultimo, che era un portale della chiesa, oggi viene attraversato da una delle strade principali di Sahagún, come se fosse un arco di trionfo.
Dopo aver dato spazio alla cultura e alla cura dei malanni è venuto il momento di saziare la fame.
– Sono da poco passate le undici e penso che a quest’ora ci stia bene una… tortilla! –
Mi fermo presso l’Albergue el Labriego, ubicato nella parte ovest della cittadina, poco prima dell’uscita dal centro abitato.
Piccolo e molto accogliente, l’ostello è nato da pochi anni riconvertendo un’antica abbazia del XIII secolo. Dispone anche di un bar-ristorante dove mi accomodo per gustare la mia tortilla.
Posso annoverare questa come la più buona di tutte quelle che ho mangiato durante il Cammino.
Lascio Sahagún attraversando puente Canto sul río Cea.
Il ponte non conserva nulla delle sue origini romane e quello che vediamo oggi è stato costruito nel XVIII secolo, utilizzando le pietre di una piccola cappella incompiuta.
Alle dodici e mezza, sono a circa quattro chilometri dopo Sahagún; a questo punto il Cammino impone di scegliere tra due percorsi alternativi, entrambi più o meno della stessa lunghezza.
Una grande stele di pietra li segna chiaramente.
La via a destra, indicata come “calzada romana” per vari motivi è meno consigliata, specialmente nei giorni caldi per via della carenza di zone d’ombra e di acqua potabile.
Io prendo a sinistra e così continuo a seguire il Cammino francese. La mia scelta è obbligata dal fatto che solo questa tratta porta a El Burgo Ranero, località che ho designato come meta finale dell’odierna tappa.
L’arrivo è ancora molto lontano: mancano più di tredici chilometri e lungo la strada incontrerò solo un piccolo paese.
Per il resto il paesaggio è ancora quello delle “mesetas”, sempre piatto e caratterizzato dai campi agricoli.
Anche il clima è rimasto invariato e, anche se non piove, il cielo è grigio e l’aria è fredda; pertanto continuo a indossare la giacca a vento.
Intorno alle quattordici passo da Bercianos del Real Camino, paesino in cui vivono circa duecento anime.
La tentazione è di concludere qui la tappa perché sono stanco e mi fanno molto male le gambe: il dolore agli stinchi è tornato ad aumentare.
Però, pensando che mancano solo sette chilometri all’arrivo e che lì troverò anche gli amici, mi faccio forza e continuo a camminare.
Inoltre, fermarmi adesso significherebbe anche allungare di molto la tappa di domani.
La sofferenza è tanta e, a un certo punto, per sfogarmi mi metto a urlare: mi trovo da solo in mezzo al nulla e pertanto non corro il pericolo che qualcuno mi prenda per pazzo.
Urlare è stato uno sfogo che mi è venuto spontaneo ma poi, pensandoci bene, rientra nella “catarsi”, una delle cinque fasi in cui si articola la meditazione dinamica di Osho.
È il momento della “disinibizione” in cui non ci sono regole e tutto è permesso per esprimere ciò che si sente dentro e buttarlo fuori con tutto il corpo.
Urlo ancora, per sfogarmi e darmi forza, adesso però aspetto con impazienza di passare alla “immobilità”, per l’esattezza la quarta fase del percorso descritto da Osho, in cui nell’assenza di movimento si riesce a percepire tutta l’energia che si ha dentro.
Come ho appena detto, cammino da solo e lungo il sentiero vedo pochissimi pellegrini. Qualcuno che passa di rado, data la mia andatura lenta, presto mi supera e scompare dalla mia vista.
– Dove sono finiti tutti? –
Non so dare una risposta a questa domanda, però mi sembra lampante che, rispetto alle prime settimane, in questa parte del Cammino è notevolmente calato il numero di pellegrini che incontro lungo il percorso.
Uno dei motivi potrebbe essere che, per saltare le “mesetas”, molti hanno preso un bus a Burgos e sono andati direttamente a León.
Anche gli amici con cui sono partito stamattina, li ho persi di vista già da un pezzo e non ho più loro notizie.
Immagino che a quest’ora siano arrivati a destinazione e di questo ne ho presto la conferma ricevendo una chiamata da parte di Rocco, il quale mi comunica di essere già in ostello e di aver preso un posto letto anche per me.
– Perfetto! – penso – Così non appena arrivo posso fare subito una doccia calda. –
Manca ancora un’oretta prima di giungere a destinazione e, dopo la telefonata appena ricevuta, sapere che qualcuno mi sta aspettando mi dà la forza di sopportare i lancinanti dolori che tormentano le mie gambe, dalle ginocchia in giù.
– Quando si diceva che una telefonata allunga la vita! –
A proposito di telefono: partendo per il Cammino di Santiago ho fortemente voluto staccarmi dalla realtà quotidiana; non perché volessi scappare da qualcosa o da qualcuno ma perché desideravo immergermi, completamente, nella realtà del pellegrinaggio.
Ho comunque portato con me lo smartphone, ma non con l’idea di usarlo per telefonate e messaggi.
Solamente pochissime volte l’ho utilizzato per chiamare e solo per casi di estrema necessità.
Prima di partire ho immaginato che molte delle persone di mia conoscenza, sapendomi sul Cammino di Santiago, non avrebbero resistito dal mandarmi anche un solo messaggino per chiedermi: “Come va?” … “Dove sei?” … “Come stai?”. Così, per non avere continue interferenze, quasi sempre tengo il telefono isolato, in modalità “aereo”.
Ho anche disinstallato Whatsapp, per evitare che io stesso avessi la tentazione di sbirciare i messaggi in arrivo.
Solo di tanto in tanto do mie notizie ai familiari più stretti: quel tanto che basta per informarli di essere ancora nel mondo dei “vivi”.
Lo smartphone, invece, mi è utilissimo per tutte le altre funzioni che svolge e mi ha permesso di lasciare a casa parecchio peso: la guida di viaggio, gli appunti, le mappe, il diario e altro ancora.
I dettagli di questo racconto, a esempio, li ho grazie a tutti gli appunti vocali che, strada facendo, ho registrato sul telefono.
Immagino che qualcuno possa obiettare questo mio metodo, sostenendo di trovare più “romantico” scrivere le proprie memorie di viaggio su un diario o addirittura su una Moleskine (in perfetto Hemingway style).
Posso concordare con questa critica però è anche vero che il mio metodo, oltre a essere più pratico, più veloce e meno ingombrante, è anche più emozionante: in questo modo, riascolto anche i suoni del contesto dove mi trovavo mentre registravo gli appunti; inoltre, dal mio tono di voce, percepisco la fatica di una salita, la gioia di una meta raggiunta o anche la sofferenza patita in quei momenti.
***
Alle 16:00, finalmente, arrivo a El Burgo Ranero e vado ad alloggiare all’Albergue El Nogal.
Gli ultimi trecento metri sono stati più pesanti dei trenta chilometri che ho percorso quest’oggi.
– Sono veramente distrutto e dolorante! –
Alla gioia di essere arrivato e di aver ritrovato gli amici, compresi quelli della Toscana, si contrappone la delusione per l’ostello: lo classifico come il peggiore di tutti quelli dove ho alloggiato durante il mio Cammino.
Anche la tanto desiderata doccia non è per niente soddisfacente, essendo angusta e poco calda.
Di buono c’è, invece, che abbiamo uno stanzone solo per noi.
Tuttavia preferisco spostarmi nella camera a fianco, dov’è disponibile un letto matrimoniale solo per me; inoltre, nella stessa stanza, oltre al mio c’è solamente un altro letto occupato da un tedesco.
Il mio compagno di stanza è un signore di una certa età e, anche, di una certa stazza fisica.
Mi sembra abbastanza affaticato ma, allo stesso tempo, anche alquanto rilassato: della serie “Dove arrivo metto punto.”
In tutto questo, la signora che gestisce l’ostello è una specie di severa educatrice d’altri tempi, che ci tratta come se fossimo dei ragazzini in un collegio svizzero, nonostante la struttura sia piuttosto fatiscente.
Ci tiene sotto controllo e ci bacchetta per ogni cosa che facciamo.
Fatta la doccia, mi sdraio sul letto.
Nonostante la stanchezza e i dolori alle gambe, riposo solo una mezz’oretta e dopo ritorno in strada per fare un giro insieme a Rocco.
Il paese, oltre a essere piccolo, è davvero brutto.
Se proprio devo dire qual è la cosa che più mi entusiasma di El Burgo Ranero, allora rispondo che sono i nidi con le cicogne che ci sono sul campanile della iglesia de San Pedro Apóstol. Solo puntando l’obiettivo della macchina fotografica verso l’alto, escludendo le brutture a livello della strada, riesco a ritagliare qualche immagine carina a ricordo di questa tappa.
La chiesa è la costruzione più importante del paese, ma questo non vuol dire che abbia un particolare rilievo artistico e storico; anzi, è piuttosto modesta e l’unica bella scultura romanica che in essa era conservata è stata spostata nella cattedrale di León.
Rientrati in ostello, Dante ci comunica che domani farà un tappone di circa quaranta chilometri, in modo da arrivare a León in un giorno, anziché in due.
L’idea gli è stata lanciata dai toscani e la propone anche a me e Rocco.
Io declino senza indugio l’invito: innanzi tutto per via delle mie condizioni fisiche non buone e poi perché, come ho già avuto modo di scrivere a riguardo, non intendo il Cammino come una mera attività sportiva, dove quel che conta sono i record dei chilometri percorsi e dei tempi impiegati.
Rocco non sembra indifferente alla proposta; però, sentendo che io non vado, anche lui decide di non seguirli.
Intorno alle diciannove andiamo a cena, scegliendo un ristorante a poca distanza dall’ostello.
Ancora una volta mi ostino a prendere la paella e, ancora una volta, devo appurare che si tratta di un semplice risotto.
A seguire, mi consolo con una bistecca di sirloin (lombo), con contorno di patate, e finisco con un dolce.
Al termine della cena sono proprio cotto, anche perché nel pomeriggio non ho riposato abbastanza.
Alle ventuno mi metto a dormire e concludo qui questa mia lunga giornata.
© Aldo Lardizzone 2020 | CREATIVE COMMONS |