Breve racconto di viaggio in Botswana

Kubu Island, l’isola in mezzo a un “mare” di sale

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I baobab di Kubu Island
I baobab di Kubu Island

 

 

 

10 agosto 2008

 

È l’alba di un nuovo giorno.
Per l’esattezza è il quattordicesimo da quando con i miei compagni d’avventura siamo arrivati in Botswana.

Il freddo del mattino è sempre piuttosto pungente e il tepore del sacco a pelo mi invoglia a trattenermi ancora un po’ nel mio guscio protettivo.

Sembra strano parlare di freddo in Africa quando invece si pensa a questo continente come a una terra calda e assolata. Anche qui il freddo ha la sua parte e quando c’è si fa sentire.

 

Le prime luci del giorno hanno già inondato l’interno della tenda, indicandomi che è ora di dare inizio alla giornata.

È risaputo che in Africa, a prescindere dall’essere leone o gazzella, appena sorge il sole bisogna cominciare a correre per mangiare e sopravvivere. E questo vale anche per il viaggiatore.

Da queste parti non si può pensare di fare colazione nella sala dell’hotel o al bar dietro l’angolo.

Pertanto anche stamani, come ormai facciamo due volte al giorno, mattina e sera, per poter mettere qualcosa sotto ai denti ci tocca darci da fare: rimontare il campo, tirar fuori le vettovaglie, accendere i fuochi e preparare la colazione.

Per proteggere la nostra dispensa dagli animali della savana, dobbiamo necessariamente smontare la cucina ed eliminare ogni traccia di cibo tutte le volte che terminiamo i nostri pasti.

Tutto quel che è commestibile e che in qualche modo odora dobbiamo riporlo meticolosamente dentro al robusto carrello cassonato che ci portiamo dietro, agganciato al nostro veicolo.

 

Ieri sera, non appena ci siamo ritirati nelle tende e il campo è rimasto libero dalla presenza di umani, gli animali della savana sono venuti a curiosare nell’accampamento, attirati dagli odori residui della nostra cena.

Non so dire quali animali si siano aggirati nottetempo fra le tende. È certo però che prima di addormentarmi ho sentito benissimo il verso di una iena che proveniva da molto vicino. L’impressione è stata che l’animale, comunemente considerato come una creatura spaventosa e feroce, si trovasse appena oltre il sottile telo della mia tenda.

Siamo abituati a sentire i versi degli animali comuni che vivono alle nostre latitudini ma è certamente inusuale, per noi abitanti del nord del mondo, udire il grido di una iena. Sembra quasi l’ululato, dalle note alte e stridenti, di uno spirito maligno. Devo dire che indifeso com’ero e sentire l’ostile verso da una distanza così ravvicinata mi ha messo una certa apprensione.

Stamattina ci sono chiare orme di felino attorno alle tende.

Che nella notte ci abbia fatto visita anche Sua Maestà il “re Leone”?

Se lo ha fatto almeno ha avuto la cortesia, o la furbizia, di farlo in silenzio.

 

Dal campeggio di Khumaga, dove abbiamo trascorso la notte, impiegheremo otto ore circa per raggiungere Kubu Island, la meta di quest’oggi.

Ci addentreremo nel Makgadikgadi pan, l’area di saline più vasta al mondo.

L’enorme distesa è composta solo da aride savane e da laghi salati. Per questo i primi esploratori che nel passato si spinsero fino a queste latitudini l’hanno descritta come la “terra della sete”.

 

Mentre comincia il nostro viaggio, la radente luce dell’alba ha già lasciato il posto ad un sole dominante che illumina in modo uniforme il paesaggio.

Anche la temperatura è aumentata repentinamente. Il freddo del primo mattino non c’è più e il calore ci spinge velocemente a toglierci da dosso gli abiti più pesanti.

Occhiali da sole, cappelli e foulard quest’oggi sono indispensabili. Dobbiamo proteggerci dai colpi di calore, dalla luce accecante e dalla sabbia bianca e molto fine che come borotalco s’insinua ovunque.

 

Il nome comune che identifica questi luoghi è “pan” che tradotto letteralmente dall’inglese significa “padella”.

L’abbinamento del nome alla morfologia del territorio non poteva essere più azzeccato. Infatti, ci troviamo ad attraversare un’interminabile distesa perfettamente piatta che in ere passate ha rappresentato il fondo di uno dei più grandi laghi del continente africano.

Nelle stagioni secche si presenta come un accecante manto di sale, interrotto di tanto in tanto da ampie zone sabbiose.

Ogni luogo sulla Terra dovrebbe essere visto in diverse stagioni, col buio e con la luce e con differenti condizioni climatiche.

L’affermazione vale decisamente per questo deserto che è soggetto a cambiamenti repentini. Basta una pioggia e la candida superficie di sale diventa uno specchio d’acqua che riflette l’azzurro del cielo. Quello che prima era un deserto diventa così una savana. La terra si riveste di vegetazione e l’acqua richiama in quantità animali selvatici di diverse specie.

 

Siamo attoniti! Nell’ambiente completamente vuoto che ci circonda, il silenzio è surreale e solo a volte viene interrotto da lievi folate di vento.

Se fossi un “terrapiattista” potrei pensare che stiamo per giungere alla fine della Terra e dopo questa distesa di nulla troveremo il baratro con la conseguente caduta libera nell’infinito universo.

Ma non tema il mio lettore, so bene che il pianeta è tondo come un’arancia.

 

Al cospetto di una natura primordiale il tempo non esiste. Siamo negli anni duemila ma potremmo essere benissimo in epoche molto più antiche e il paesaggio sarebbe esattamente lo stesso.

Ci sentiamo ai confini del mondo e, con lo sguardo che si perde all'orizzonte, lo spettacolo unico e puro del diafano ambiente desertico ci riempie di mille emozioni. Nella nostra memoria s’imprimono ricordi che certamente rimarranno indelebili nel tempo.

 

Il nostro autista dimostra di essere perfettamente a conoscenza dei luoghi che attraversiamo. Ci chiediamo però come possa essere certo della direzione da seguire, considerando che non ci sono piste, che l’ambiente tutt’attorno è sempre uguale e che non utilizza alcuna strumentazione tecnologica. Probabilmente qualche rara acacia, che di tanto in tanto interrompe la continuità del paesaggio, rappresenta un punto di riferimento per l’orientamento.

 

Facciamo una sosta a Gweta, piccolo agglomerato urbano caratterizzato dall’atmosfera di una polverosa località di frontiera.
Il suo nome deriva dal gracidio delle rane “toro” che ricorda il muggito dei bovini.

I grossi anfibi aspettano sepolte nella sabbia l'arrivo della stagione delle piogge, periodo in cui escono in superficie per accoppiarsi.

Gweta è l’ultima possibilità per fare il pieno di carburante e di acqua potabile.

Approfittiamo della sosta anche per aggiungere qualche altra cibaria alla nostra già ben fornita dispensa.

 

Da qui in poi sarà nuovamente il nulla a caratterizzare l’ambiente che attraverseremo e così sarà fino al pomeriggio di domani quando torneremo alla “civiltà” raggiungendo la cittadina di Nata.

Anche gli animali sembrano spariti.

Solo alcune carcasse ridotte ormai a ossa bianche, luccicanti sotto al sole, testimoniano la presenza di esseri viventi, anche se questi che vediamo “viventi” non lo sono più.

 

Nel pomeriggio di ieri, invece, durante un game drive in una zona di savana arbustiva nei pressi di Khumaga, abbiamo fatto un pieno di avvistamenti di animali.

Mandrie composte da numerose zebre, qualche gnu e diversi elefanti, si abbeveravano al tramonto lungo le rive del fiume Boteti che in questo periodo di siccità è ridotto a qualche pozza d’acqua.

In un laghetto, conosciuto come “Hippo pool”, abbiamo osservato anche un gruppo di grossi ippopotami che pigramente pisolavano immersi nell’acqua fangosa.

 

Durante l’attraversamento del “pan” chiediamo al nostro autista di fermare la Jeep per fare una sosta.

Una volta a terra ci diverte sentire la crosta di sale che scrocchia sotto ai nostri piedi. Come dei bambini lasciati liberi ai giardinetti pubblici ci muoviamo vivacemente per sgranchire un po’ le gambe e trovare delle pose originali per le foto ricordo.

Il gioco però non dura molto perché il sole cocente del mezzogiorno ci spinge presto a rintanarci all’interno dell’autovettura.

Facciamo un’altra sosta solo quando incontriamo un’acacia solitaria.

Stringendoci all’interno della piccola ombra che l’albero proietta sul terreno, organizziamo lo spuntino di metà giornata.

Prima di puntare diritti alla meta finale, ci fermiamo un’ultima volta per raccogliere la legna necessaria per il fuoco di questa sera.

 

La pista che seguiamo è increspata e polverosa. L’impalpabile sabbia, sollevata dal vento e anche dal passaggio del nostro veicolo, avvolge noi e ogni altra cosa in una persistente nuvola biancastra.

Nel primo pomeriggio vediamo che all’orizzonte qualcosa comincia a cambiare nello scenario a cui siamo ormai abituati.

Scorgiamo delle asperità che si stagliano dal pianoro di sale.

Man mano che ci avviciniamo si delinea sempre più la sagoma di un’isola. Su questa cresce una vegetazione propria e molto singolare costituita da buffi alberi ciccioni con poche foglie e rami contorti, tozzi e arruffati che sembrano radici. Sono i baobab.

Nessun altro albero in Africa, come il millenario baobab, evoca la magia del continente nero.

Una leggenda africana racconta che un tempo il baobab era un albero con una folta chioma verde, talmente bella che lo stesso se ne vantava continuamente. Allora Dio per punire la sua vanità lo sradicò e lo ripiantò capovolto, con le foglie sottoterra. Lasciando così che fossero le sgraziate radici a costituire la parte sommitale del baobab.

 

Kubu island è un agglomerato di rocce granitiche che raggiunge un’altezza di una decina di metri e si estende per circa un chilometro. Già per queste caratteristiche è considerata un’isola in mezzo a un “mare” di sale. Ma è stata davvero un’isola quando in ere lontane era circondata dalle acque di un immenso lago.

 

Trascorreremo qui la notte.

Ci accampiamo attorno a un enorme baobab che sembra accoglierci e proteggerci come se fossimo tra le braccia di una generosa e formosa madre africana.

L’accoglienza sull’isola è organizzata in un campeggio molto spartano e dai confini non bene identificati. I servizi sono minimi e mancano l’elettricità e l’acqua.

Nell’ultima ora di luce della giornata facciamo un giro alla scoperta di Kubu Island.

I baobab, di tutte le forme e dimensioni, sono il tema ricorrente che caratterizza l’isola.

Il “pan” di sale che si estende a perdita d’occhio non ci annoia mai e ogni scorcio panoramico ci restituisce sempre nuove emozioni.

Le sagome rocciose sono chiaramente modellate dagli agenti atmosferici e in particolare il forte vento, che spesso soffia da queste parti, ha dato un bel contributo nel levigare le rocce.

Anche il moto ondoso delle acque che un tempo lambivano l’isola, hanno lavorato per arrotondare i ciottoli che ancor oggi si trovano nelle antiche battige di Kubu Island.

Il sole cala velocemente all’orizzonte. Man mano che scende i colori del paesaggio si accendono di tinte vivide che vanno dal giallo al rosso fuoco.

Anche i baobab, la cui corteccia va dal grigio al rosso mattone, si accendono di tonalità piene.

Mentre le ombre si allungano, i contrasti si accentuano e danno risalto ai particolari che durante il giorno rimangono invisibili sotto il sole accecante.

Ma lo spettacolo più emozionante della giornata è forse quello notturno.


La cena è stata consumata e il campo rassettato.

Il fuoco scoppiettante è ormai un ampio braciere sonnacchioso.

Spento il faro elettrico, che ha illuminato l’accampamento traendo corrente dalla batteria della Jeep, il buio è assoluto e la nostra attenzione non può che rivolgersi al cielo.

La Luna è assente e la volta celeste è un manto di stelle di un numero incalcolabile.

Il nero della notte è il nero più nero che abbia mai visto e i vibranti puntini luminosi che costellano il cielo danno il senso di una profondità senza fine.

Non ci sono più confini e anche l’immaginazione è libera di spaziare.

Le stelle appaiono così vicine che mi sembra di starci in mezzo. Più che trovarmi in un luogo solitario del pianeta Terra, la sensazione che ho è di vagare nello spazio infinito.
Nel silenzio assoluto sediamo attorno al braciere per mitigare il freddo africano, tornato protagonista con l’arrivo della notte.

Adesso è il tempo del relax e della convivialità, con le ultime chiacchiere della giornata.

Quando poi la stanchezza prende il sopravvento, ognuno di noi si ritira alla spicciolata nella propria tenda e una volta cessato anche il nostro chiacchiericcio è la voce della Natura che comincia a raccontare.

© Aldo Lardizzone 2020 Licenza Creative Commons CREATIVE COMMONS

 

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